A distanza di un trentennio rispetto ai paesi anglosassoni anche in Italia il Dlgs. N. 28 del 4/3/2010 sulla mediazione ha introdotto l’obbligatorietà del tentativo di risoluzione alternativa delle controversie.
In America già nell‘800 l’Interstate Commerce Act fu la prima istituzione di un meccanismo di risoluzione volontaria di controversie commerciali tra Stati. Oggi la Mediazione prevale sui procedimenti giurisdizionali ed è obbligatoria prima di adire un giudice ordinario.
In realtà risulta essere molto più antica in Cina ed in Giappone, paesi in cui la stretta connessione della legge con la morale e con la religione rende la società un organismo unico, collettivista ed organicista, il cui primario obiettivo è la convivenza ordinata ed armonica tra gli individui.
L’ancestrale convinzione che la conoscenza di sé stessi e degli altri è essenzialmente saggezza ha il senso, per questi popoli, della realizzazione di sé stessi nel sé collettivo. Il senso del dovere quale valore superiore caratterizza un ordine sociale e naturale, nel quale il conflitto come turbamento dell’armonia risulterebbe un modo statico-cogente di interpretare e vivere la realtà.
Al contrario la cultura della mediazione, sintomo evidente di un pensiero unitario, concedendo diritto di vita ad entrambi gli opposti, rende possibile il superamento della coercizione della norma laddove questa finirebbe per tradire la realtà complessa del singolo ma anche della collettività.
Noi occidentali, figli dell’Illuminismo, consacrati al grande valore dell’individuo, ma anche al progresso a qualunque prezzo, siamo definitivamente discesi nel sistema dell’individualismo, accompagnati dall’illusione di dominare il mondo.
La scienza, che è alla base di ogni mutamento ed evoluzione sociologica e psicologica, da Darwin in poi, ci ha insegnato che nella competizione era possibile trovare i segreti della realizzazione del sé, inducendo così l’individuo al rifiuto della cooperazione e quindi della collettività.
La crisi politico-economica del nostro mondo ci ha mostrato già la necessarietà della cooperazione, non quale valore etico-estetico ma quale elemento funzionale alla crescita della società, intesa come corpo unico e non come insieme di individui.
Ormai il concetto di razionalizzazione, che ha plasmato l’epoca moderna tra disincanto e progresso, è il centro di una grande crisi in atto.
La ragione, la ragion di stato, appare sempre più ambigua ed oscura e le conseguenze non risparmiano affatto la giustizia, che è proprio lo strumento per il mantenimento dell’ordine e dell’armonia sociale.
Il controllo dell’uomo sull’uomo e sulla natura ha dichiarato proprio nella violenza del comando il suo fallace obiettivo.
L’Illuminismo è diventato totalitario e la rivoluzione hegeliana della trascendenza degli opposti è scivolata sulle menti occidentali come una teoria filosofica troppo lontana dal narcisismo dell’uomo moderno.
E’ questa, a grandi linee, la premessa di un ritorno al passato di cui la mediazione civile è solo uno dei vari sintomi.
Il codice di procedura civile del 1865, al Titolo della Conciliazione e del Compromesso, prevedeva largamente la risoluzione delle liti in modo alternativo al giudizio ordinario. Nel codice del 1942 all’art. 1 la giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, viene affidata completamente ai giudici ordinari secondo le norme del codice.
E’ solo all’art. 320 che si fa cenno alla Conciliazione.
Si tratta, è evidente, oramai di un strumento in disuso che ha rappresentato la società agricola, il passato, e mal si adatta alla società degli anni ’40, moderna, del progresso e dell’industrializzazione.
Oggi, nella nostra contemporanea modernità, invece, è proprio l’economia delle grandi e piccole aziende che beneficerà della velocità delle ADR, svincolandosi dalle lungaggini paralizzanti dei processi giuridici che incidono sulla già grave e conclamata crisi economica.
La mediazione, strumento giuridico nuovo solo in apparenza, chiede proprio alla giustizia un grande sviluppo culturale di non facile realizzazione, ed in particolare al ruolo del difensore una sorta di ampliamento visivo. Quest’ultimo è chiamato, pur continuando a tutelare il diritto del singolo, a difendere le differenze individuali della nostra società multiculturale ed a contribuire, praticamente anche nella camera di mediazione, al superamento del dualismo per il fine della sopravvivenza delle diverse visioni della realtà, verso lo scopo supremo dell’ordine e dell’armonia dell’Organismo-Uno che è la società intera, moderna e poliedrica.
E’ stata già definita giustizia privata, allargata, differenziata, ma in conclusione giustizia non violenta ci sembra una definizione più adatta della Mediazione, che si inserisce in questo momento storico nell’ambito di una rivoluzione culturale sul finire di un ciclo quasi del tutto obsoleto quale è il nostro.
Ora la relatività della difesa dei diritti di uno dovrà essere contenuta nell’assolutezza della difesa dei diritti di ognuno, della collettività. Pertanto l’unica strada percorribile appare quella di non fomentare più dualismi ed opposizioni radicali ma accogliere e sublimare divergenze funzionali alla crescita della società.
Il rispetto di ogni individuo, della sua personalità e della sua complessità è il fondamento delle relazioni sociali, tanto quanto lo è la flessibilità verso le differenze. Flessibilità che sta prendendo le distanze anche dal concetto di tolleranza che fino ad oggi ci ha consentito di ammettere l’esistenza di un diverso punto di vista, senza un vero modo comunicativo e comprensivo di integrazione.
E’ molto ciò che ci si aspetta dalla Mediazione ed ancora di più dagli avvocati che, come anelli saldi di congiunzione tra la legge e gli uomini, tra la freddezza del diritto e la creatività nell’interpretazione della norma, hanno il complicato compito di favorire l’incontro-scontro dei confliggenti perché la motivazione, la sofferenza, la legge interiore di ogni uomo, fatta di successi e fallimenti, possa essere ascoltata e compresa.
E’ nel mondo romano che la legge dell’uomo diventa diritto, legge scritta per esigenze di ordine pubblico, esterna all’individuo che si ritrova, da quel momento, etichettato come persona giuridica, limitata quindi in una minima realtà manifesta.
L’interezza della realtà invece non può essere mai tutta espressa attraverso lo strumento del diritto, poiché per la gran parte si compone di sottostanti interessi concreti, di emozioni, pensieri e sensazioni non dette.
La tessitura delle relazioni umane, nonostante la sua tangibilità, sfugge agli schemi necessari alla norma scritta, la quale di fatto costringe l’individuo all’isolamento nel suo pensiero parziale ed incomunicabile.
La mediazione, permettendo l’esternazione dell’affastellato intreccio di esperienze, proprio di ogni conflitto, ci apre ad un luogo di vita fatto di sfumature e di completezza che il diritto scritto non può contemplare.
Nella società tecnologica ed esasperatamente progressista di cui siamo parte, sono proprio i più deboli, intimoriti dalla complessa macchina della giustizia, a soccombere sotto l’oppressione dei propri diritti, perchè psicologicamente ed economicamente non dotati di strumenti idonei per affermare sé stessi. È a loro che la Mediazione riserva, attraverso Organismi particolarmente sensibili, una maggiore attenzione.
G. Quarticelli